La compensazione e l’incentivazione: modelli e differenze rispetto alla perequazione
di Emanuele Boscolo
Professore di Diritto Amministrativo
Università Insubria Varese – Como
Il dibattito sui modelli perequativo-compensativi [nota 1], dopo una prima stagione di pionieristica sperimentazione consumatasi in carenza di precisi fondamenti normativi, nella quale sono progressivamente emerse le potenzialità di tali dispositivi e la loro effettiva utilità in vista del superamento di alcuni dei problemi strutturali palesati dal tradizionale assetto della funzione di pianificazione urbanistica, è entrato in una fase che potrebbe definirsi ‘riflessiva’ [nota 2].
Premessa: la stagione riflessiva
Nel periodo più recente la pianificazione perequativa ha ulteriormente allargato i propri spazi: non c’è solo il Piano di governo del territorio di Milano [nota 3] a segnare i tratti di una nuova stagione; si registra soprattutto una serie di piani – anche di comuni di medie dimensioni – che danno corpo a sofisticati modelli di perequazione (di comparto o diffusa), spesso combinati con soluzioni di matrice compensativa, applicate per risolvere specifiche situazioni territoriali.
Sotto questo profilo, sembra ormai chiaro che il modello perequativo è ben lungi dall’aver raggiunto una generalizzazione e non esprime neppure un paradigma dominante [nota 4]. Il panorama pianificatorio complessivo è quindi destinato a far registrare una compresenza di piani tradizionali e piani ‘ibridi’ (piani con riferimenti circoscritti alle tecniche perequativo-compensative), e di un numero più ristretto di piani autenticamente perequativi. Questi ultimi sono tuttavia spesso in grado di catalizzare l’attenzione del dibattito (anche giuridico), in quanto adottati da città-simbolo (Roma – Milano, in testa) ed in quanto, purtroppo, connotati da una elevata densità problematica, che spesso prelude ad un bisogno di intervento giurisdizionale.
Il D.l. 70/2011 e il perdurante bisogno di una legge statale di principi
Il legislatore nazionale rimane sordo ad ogni sollecitazione di riforma organica e la legge di principi (con una vasta area di intersezione tra governo del territorio ed ‘ordinamento civile’) da tutti auspicata e sollecitata sembra quanto mai lontana. Eppure, nel frattempo, anche la Corte costituzionale (sent. 131/2010) ha ribadito che – almeno per il profilo relativo alla circolazione dei titoli volumetrici – la tecnica perequativa pone questioni che attengono alla materia “ordinamento civile” (art. 117, comma 2, lett. l, Cost). Se dalle sentenze del Consiglio di Stato sul piano di Roma [nota 5] deriva una indicazione nel senso che la dimensione meramente attuativa (si è distinta in tale sede una ‘fase statica’ da una ‘fase ‘dinamica’) ed il fondamento consensuale della ‘tecnica’ perequativa’ consentirebbero di lasciare sullo sfondo la questione del fondamento normativo a cui ancorare questa modalità di costruzione del piano, obiettivamente assai diversa rispetto a quella prefigurata dalla L. 1150/1942, sarebbe grave rinunciare a ribadire l’urgenza ed imprescindibilità di una legge statale di principi (i cui contenuti, in una materia a competenza concorrente non dovrebbero tuttavia determinare alcuna omologazione forzosa della varietà di modelli riscontrabili nella disciplina legislativa espressa dalle regioni che hanno già tempestivamente legiferato [nota 6]).
Sarebbe del pari sbagliato ritenere che l’estemporaneo intervento costituito dall’art. 5, comma 3, del D.l. 13 maggio 2011, n. 70 in tema di trascrivibilità dei titoli volumetrici («diritti edificatori comunque denominati nelle normative regionali»), abbia risolto tutti problemi sul campo e possa garantire la copertura normativa di cui perequazione e compensazione avrebbero bisogno. E’ solo il caso di ricordare che le spinose questioni che sollevano le vicende circolatorie dei titoli volumetrici (diritti edificatori e credito compensativi: infra) riguardano un novero limitatissimo di piani perequativo-compensativi. Per paradosso, si ha addirittura ragione di temere che la risposta (ex se utile ed attesa da tempo) ad un problema puntuale possa allontanare l’approdo di un intervento legislativo organico, sul presupposto che il richiamo alle leggi regionali sia considerato bastevole dal legislatore nazionale, convintosi della non essenzialità di un intervento sui principi che informano la pianificazione e sulla struttura del diritto di proprietà fondiaria.
Il sindacato esteso agli esiti dei dispositivi perequativi
Nel contempo, dalla giurisprudenza amministrativa traspare (Tar Lombardia, sez. II, 17 settembre 2009, n. 4671, sul Pgt di Buccinasco) [nota 7] una attenzione nuova al concreto funzionamento dei dispositivi perequativi, nella consapevolezza che solo un effettivo ed efficiente dispiegamento delle potenzialità prefigurate dal piano (reso possibile solo in un assetto pianificatorio scevro da sbarramenti territoriali od economico-relazionali) possa garantire pienezza alla proprietà conformata mediante questo tipo di piano [nota 8]. Questa presa di posizione (a cui fa seguito un contenzioso decisamente serrato) concorre in maniera determinante a segnare il trapasso verso la stagione ‘riflessiva’: sembrano ormai irrimediabilmente lontani gli echi delle sentenze sul Prg di Reggio Emilia [nota 9] o di Avellino [nota 10]: la stagione in cui dalla giurisprudenza amministrativa è venuto un sostegno decisivo (e quasi incondizionato) al radicamento della perequazione si è definitivamente chiusa ed oggi i piani debbono reggere ad un vaglio che si appunta – attraverso il richiamo alla proporzionalità (proporzionalità-idoneità – Geeignetheit [nota 11] – dello strumento rispetto agli obiettivi che ciascun comune assegna alla pianificazione) – sulla effettiva attitudine del piano a garantire effettività alle previsioni infrastrutturative assicurando ai proprietari coinvolti un esito non illusorio, che non si risolva cioè in una malcelata compressione del ‘contenuto minimo’ del diritto di proprietà, nozione quest’ultima a cui si torna dunque a fare riferimento per distinguere vere e ‘false’ perequazioni [nota 12] (piani che sottendono, nella sostanza, previsioni vincolistiche larvate, non indennizzate e pretesamente sottratte dal regime di decadenza) [nota 13].
Questo nuovo orientamento del giudice amministrativo, atto a sottoporre i piani perequativi ad un sindacato ‘stretto’, rende ancora più stringente il vincolo a corredare i piani perequativi con documenti atti a dare giustificazione dei diversi scenari (anche di quasi-mercato) ed a comprovare che i dispositivi cooperativi o di scambio mediante cui si esplicherà il piano non sottendano improprie ‘catture di valore’ in danno dei proprietari [nota 14] o facciano riemergere profili di ingiustificata disparità.
La distinzione tra perequazione e compensazione e le figure ricorrenti nella prassi
Nel contempo emerge sempre più netta la necessità di fissare delle distinzioni (non solo nominalistiche): tra le diverse forme di perequazione, tra perequazione e compensazione (fondamentale sul punto la citata sentenza sul Pgt di Buccinasco: «Poiché la caratteristica del meccanismo individuato dal Pgt è l’attribuzione di un diritto edificatorio, da esercitare in aree del territorio comunale diverse da quella di provenienza del diritto stesso, in cambio della cessione al Comune delle aree produttive del diritto, occorre chiarire che la legge regionale prevede due sistemi di cessione di aree al Comune in corrispettivo dell’attribuzione di diritti edificatori, diversi tra loro, che possiamo definire, il primo cessione perequativa, ed il secondo cessione compensativa.
La cessione perequativa è prevista dall’art. 11 comma 1 e 2 della L.r. 12/05 ed è alternativa all’espropriazione perché non prevede l’apposizione di un vincolo preespropriativo sulle aree destinate a servizi pubblici ma prevede che tutti i proprietari, sia quelli che possono edificare sulle loro aree sia quelli i cui immobili dovranno realizzare la città pubblica, partecipino alla realizzazione delle infrastrutture pubbliche attraverso l’equa ed uniforme distribuzione di diritti edificatori indipendentemente dalla localizzazione delle aree per attrezzature pubbliche e dei relativi obblighi nei confronti del Comune.
La cessione compensativa invece si caratterizza per l’individuazione da parte del pianificatore di aree, destinate alla costruzione della città pubblica, rispetto ai quali l’amministrazione non può rinunciare a priori al vincolo ed alla facoltà imperativa ed unilaterale di acquisizione coattiva delle aree. In queste aree, il Comune appone il vincolo preespropriativo ed entro il termine di cinque anni deve fare ricorso all’espropriazione con la possibilità di ristorare il proprietario mediante attribuzione di ‘crediti compensativi’ od aree in permuta in luogo dell’usuale indennizzo pecuniario. La cessione perequativa si caratterizza per il fatto che il terreno che sarà oggetto di trasferimento in favore dell’amministrazione sviluppa volumetria propria (espressa, appunto dall’indice di edificabilità territoriale che gli viene attribuito) che, però, può essere realizzata solo sulle aree su cui deve concentrarsi l’edificabilità (aree alle quali è attribuito un indice urbanistico adeguato a ricevere anche la cubatura proveniente dai terreni oggetto di cessione).
La cessione compensativa, invece, prevede la corresponsione di un corrispettivo (per la cessione) in volumetria (diritto edificatorio) o in aree in permuta (anziché in denaro, come avverrebbe tanto nel caso in cui l’area fosse acquisita bonariamente quanto nel caso in cui venisse espropriata)» [nota 15], tra la diverse figure perequative e ad altri istituti (dall’incentivazione [nota 16] alla applicazione di standard qualitativi, contributi aggiuntivi ecc.) [nota 17]. Indubbiamente tra tutte queste figure c’è una radice comune (che si estende anche alle perequazioni territoriali) [nota 18], legata alla tendenza a coinvolgere i proprietari – sollecitando variamente la loro adesione ‘egoisticamente interessata’ – nel perseguimento degli assetti definiti dal piano, ma si tratta di figure profondamente differenziate. Un certo sincretismo tra i piani (che fa delle leggi regionali, anche ove presenti, un riferimento comunque debole) pone l’interprete di fronte all’esigenza di cogliere con immediatezza la tipologia di strumento che l’amministrazione inserisce nella struttura del piano. In tal senso occorre, per fare solo due esempi, ribadire la distinzione tra perequazioni pure (che mirano solo a promuovere densificazioni e diradamenti) e perequazioni a finalità infrastrutturativa (funzionali alla acquisizione di aree senza oneri per l’amministrazione); tra perequazioni (a base pienamente volontarie) e compensazioni (in cui l’attribuzione di crediti compensativi è consustanziale all’esercizio di un potere autoritativo dal parte dell’amministrazione) e, di lì tra diritti edificatori e crediti compensativi [nota 19]. Altra distinzione molto netta – atta a segnare la frattura tra due categorie di piani e carica di differenti implicazioni giuridiche – si registra tra perequazione d’ambito (o di comparto), con la variante del comparto anche discontinuo e perequazione estesa. Nel dibattito giuridico i due schemi sollevano problemi profondamente diversi: si registra tuttavia come occupino stabilmente il campo le eccezioni rispetto alle soluzioni imperniate sulla circolazione dei titoli volumetrici [nota 20], che vengono sovente opposte in termini quasi pregiudiziali alla perequazione come tale, mentre tali profili attengono – come detto – unicamente ai (rarissimi) piani che si informano questo schema. Restano in tal modo sullo sfondo tutte le delicate questioni legate alla dinamiche cooperative (non di scambio) che connotano la perequazione d’ambito.
Dotazioni territoriali ed ambientali: la necessarietà della perequazione
I piani perequativo-compensativi sicuramente riescono ad assicurare con maggior efficacia rispetto ai piani di matrice tradizionale, imperniati sulla sequenza vincolo-esproprio lavori pubblici, il perseguimento di obiettivi infrastrutturativi e, nel far ciò, consentono anche – di riflesso – una riduzione degli affetti disuguaglianti della decisione pianificatoria.
A quest’ultimo proposito, va rimarcato che la componente infrastrutturativa e la preservazione degli spazi verdi (in ragione delle prestazioni ecosistemiche che queste aree garantiscono: va ricordato che la pianificazione urbanistica si occupa di una risorsa tipicamente multidimensionale come il territorio [nota 21]: occorre quindi tenere nettamente distinte due situazioni territoriali: a. i tessuti urbani consolidati, di cui viene primariamente in rilievo – ad una osservazione a scala locale – il valore d’uso per i proprietari e per gli utilizzatori urbani, e rispetto ai quali occorre regolare le trasformazioni (con un favor per il riuso e la ricucitura degli spazi interstiziali) con il fine della massima efficienza dei sistemi urbani; b. gli areali agro-naturali, che – osservati a scala allargata – rivelano il loro statuto di spazi ambientali ad elevate valenze ecologiche e di unità di paesaggio, il cui valore di lascito deve essere preservato (in quanto capitale naturale atto ad assicurare servizi ecologici e culturali) secondo le logiche ed i principi propri del diritto ambientale [nota 22] (la responsabilità intergenerazionale [nota 23], l’affievolimento della dimensione dominicale [nota 24] e micro-particellare ed il riconoscimento che il suolo ha natura di bene comune, in quanto garantisce servizi a fruizione indivisa [nota 25]) costituiscono contenuti necessitati dei piani urbanistici non tanto per ottemperanza ad una regola parametrica (il percorso di scostamento dalle logiche preconizzate dal D.m. 1444/1968 e, più in generale, dall’urbanistica parametrica è ormai definitivamente avviato) ma anche in risposta a sollecitazioni sovranazionali.
Si possono indicare, tra le altre, la Carta urbana europea ‘Manifesto per una nuova urbanità’, approvata dal Consiglio d’Europa il 27 maggio 2009, in cui si profila il rapporto di diretta ed inscindibile strumentalità tra le dotazioni territoriali e le politiche dell’inclusione, profilando nella dimensione urbana l’ambito ottimale di costruzione della coesione sociale; ancora si può pensare alle indicazioni derivabili dalla direttiva 2001/42/Ce in tema di Vas, da cui si ritrae l’indicazione circa la necessità di politiche attive per gli spazi aperti (entro cui le soluzioni perequativo-compensative sovente rappresentano l’unica risorsa regolatoria) e di una dimensione di scarsità e finitezza delle previsioni incrementali (la cui predeterminazione risente fortemente dei risultati della Vas e la cui allocazione efficiente chiama quindi nuovamente in causa i pianificatori e le amministrazioni). Se a ciò si aggiungono i richiami della Cedu rispetto al contenuto del diritto di proprietà ed i riflessi sull’ordinamento interno in tema di computo dell’indennità di esproprio (che hanno ormai costretto i comuni, oppressi anche dalle esigenze della stabilità economico-contabile, a rinunciare definitivamente alla leva ablatoria), si ha la misura della necessarietà della riconformazione (almeno in particolari situazioni, laddove le ordinarie leve conformative lasciano trasparire i loro limiti) dei piani in chiave perequativo-compensativa.
Valutabilità e piena sindacabilità dei piani perequativi
In tal senso risponderebbe ad una esigenza primaria valutare, in alcuni casi ormai a distanza di anni dall’approvazione, i risultati effettivamente prodotti dai piani perequativo-compensativi, sul duplice piano di una maggior equità e della effettività nel perseguimento degli obiettivi (infrastrutturativi ed ambientali) assunti in sede di pianificazione. Sul primo versante piano emerge ormai in termini evidenti la logica eccessivamente semplificatoria (quando non ideologica) di alcuni approcci (si pensi alla frusta retorica egualitarista che sta dietro all’idea dell’indice unico), dietro i quali si nascondono in realtà autentici arbitri. Per evitare che il piano perequativo si risolva in una distribuzione non riscontrabile e non ripercorribile nel suo itinerario logico-decisionale, ponendo la collettività di fronte ad un segmento (frame) [nota 26] della funzione pianificatoria e ad un segmento fondativo del piano sottratti altresì ad ogni forma di partecipazione e nei fatti scarsamente sindacabili, occorre dunque insistere sulla imprescindibilità della fase analitica di classificazione dei suoli [nota 27] e sulla piena conoscibilità-sindacabilità delle decisioni preliminari alla strutturazione del piano: il caso Milano sembra in tal senso decisamente emblematico. L’impressione complessiva è che le perfomance di questi piani siano eccessivamente enfatizzate e che un attento monitoraggio (doveroso, anche in chiave autocorrettiva) [nota 28] farebbe emergere come molti dei risultati attesi siano ben lungi dall’essere prossimi al raggiungimento e come, specie nei piani con perequazione diffusa, la formazione ‘a mosaico’ della città pubblica prosegua a rilento, con tempi non compatibili con le esigenze di flessibilità dell’urbanistica moderna. In questa valutazione [nota 29], occorre non farsi fuorviare dalla tendenza che si riscontra in molti contesti a giudicare il piano solo sulla base del successo di alcune specifiche operazioni, condotte con approccio consensuale ed identificando l’impresa (non il privato) quale interlocutore privilegiato.
La eccessiva complessità quale fattore di scarso successo dei piani perequativi: il Notariato: certezze e trascrizioni; le amministrazioni: semplificazioni e ruolo pro-attivo delle amministrazioni
Una delle ragioni che stanno alla base del rendimento a volte decisamente sub-ottimale dei piani perequativo-compensativi è da ricercare nella eccessiva complessità di questi piani. Complessità nel senso di attitudine degli stessi a generare compiance costs in capo ai proprietari che siano interessati a conformarsi agli scenari di valorizzazione immobiliare prefigurati dal piano. Questo fenomeno si verifica per una certa complessità del linguaggio (‘fondi sorgente’; ‘fondi accipienti’; ‘atterraggi’, ‘voli’ ecc.), ma anche per ragioni legate alla struttura dei piani stessi. Nelle perequazioni endoambito (in teoria le più semplici, poste saldamente sui binari di una prassi non diversa da quella tipica dei piani attuativi), sovente il novero dei soggetti coinvolti si dilata a dismisura e, in una impropria mescolanza tra strumenti, si prevede la necessità di ‘atterraggio’ di diritti edificatori prodotti extra-ambito. Nei piani a perequazione diffusa, è invece assai difficoltoso per le parti coinvolte (in numero generalmente assai elevato, per riflesso di una tradizionale parcellizzazione dominicale) trovare formule e luoghi di negoziazione dei titoli volumetrici ed in alcune situazioni si richiede che l’atterraggio investa contestualmente una percentuale di diritti edificatori ed una aliquota di crediti compensativi. In entrambe le tipologie di piani ai comuni è chiesto di assumere un atteggiamento pro-attivo, che deve favorire l’incontro di volontà di soggetti che a volte hanno agende e preferenze individuali non convergenti. Se solo dall’attuazione integrale del piano perequativo può derivare il perseguimento degli obiettivi di utilità collettiva che si riconnettono al dispiegamento delle potenzialità insediative (risultati non raggiungibili mercé l’attuazione soltanto di alcune di tali previsioni: quelle di maggior interesse economico o connotate da maggior facilità di attuazione), occorre che l’amministrazione, assumendo un ruolo che un tempo – quando essa si disinteressava dell’attuazione del piano, relegato in una condizione di ottatività – le era per definizione estraneo, cerchi di fornire certezze e fluidità a questi quasi-mercati. Ciò avviene già in alcuni ambiti, ad es., mediante l’indizione di aste, la pubblicazione di prezzi medi, l’organizzazione di sistemi para-borsistici [nota 30]. Al bisogno di certezze reclamate da questi particolari mercati urbanistici si cerca quindi di rispondere mediante la costituzione di un ‘registro comunale’ nel quale vengono annotati, dopo l’assegnazione, i diritti edificatori ed i crediti compensativi (opportunamente distinti tra loro) e le correlative vicende di circolazione. Una funzione dunque, ad un tempo, di semplificazione ed efficientamento.
Questo Registro, com’è evidente, non può tuttavia avere alcuna funzione di regolazione dei conflitti mediante opponibilità a terzi: tale funzione produttiva di certezze è riservata in via esclusiva ai Registri immobiliari. Il Registro a tenuta comunale – senza alcuna sovrapposizione con il sistema delle trascrizioni – può invece assumere una funzione di volano delle negoziazioni: basti pensare alle forme di pubblicizzazione in rete delle disponibilità attuali di titoli volumetrici ‘alla ricerca di atterraggio’. Il Registro, inoltre, può divenire occasione di gestione ‘dematerializzata’ dei titoli volumetrici [nota 31], ossia di gestione-circolazione non materiale delle cedole corrispondenti al titolo, secondo una caratteristica vicenda evolutiva che, nella ricerca di una sempre maggior sicurezza delle negoziazioni, ha investito la disciplina dei titoli di credito negli ultimi decenni [nota 32].
Va nuovamente rimarcato che questi strumenti non possono tuttavia supplire al bisogno di certezze che solo la pubblicità immobiliare può garantire. In tale direzione, alla la notevole apertura rappresentata Corte cost. 4 dicembre 2009, n. 318, secondo cui l’art. 2643 c.c. non contiene un elenco tassativo degli atti trascrivibili, ma adotta una “formulazione aperta” [nota 33], ha fatto seguito la previsione contenuta nel D.l. 70/2011, a cui è sottesa anche la riaffermazione del ruolo centrale ed imprescindibile del Notariato. Va tuttavia sottolineato che il ‘decreto sviluppo’ prevede unicamente la trascrizione dei negozi giuridici di cessione dei titoli volumetrici, lasciando irrisolto il problema del contenuto del titolo che dovrebbe essere espresso da una cartula, specie al di fuori dai casi in cui il titolo edificatorio sia stato assegnato nell’ambito di una convenzione.
Alla mancanza di certezze si aggiunge un trattamento tributario non coerente con la circostanza che la circolazione dei titoli volumetrici non postula la circolazione della proprietà.
Tutto ciò concorre a configurare una serie di ‘costi transazionali’ troppo elevati, che si frappongono al funzionamento efficiente dei dispositivi perequativo-compensativi (impostati sulla scia del c.d. teorema di Coase).
Il premio Nobel per l’economia 2009 O. Williamson [nota 34] ha dedicato alcuni contributi fondativi a questo tema, dimostrando che i mercati risentono fortemente tanto dell’incertezza giudica quanto delle rigidità di contesto che si interpongono nelle negoziazioni. Il rischio dunque è che le ambiziose architetture espresse da questi piani, già sovracaricate della necessità di perseguire molteplici obiettivi di utilità collettiva (dalla ‘demanializzazione’ degli spazi verdi, alle azioni infrastrutturative, alle densificazioni) – diano ingresso alla situazione che gli studiosi dell’economia politica di impostazione neocomportamentale definiscono immaginificamente ‘fallimento degli anticomuni’ (Tragedy of the Anticommons). Anche per una esigenza di semplificazione e per facilitare una piena sindacabilità, se la pianificazione deve dettare le condizioni per l’adesione ‘spontaneamente interessata’ di tutti i proprietari, è opportuno che il piano si corredi di schede recanti simulazioni di scenari condotte facendo ricorso anche al sofisticato apparato logico-matematico che va sotto l’etichetta di ‘teoria dei giochi’ [nota 35]: è infatti decisivo ‘modellizzare’ le condotte dei proprietari, che si prestano ad essere paragonati ad attori razionali (giocatori). In un ‘gioco’ cooperativo, indici troppo bassi, zone di concentrazione volumetrica troppo ristrette [nota 36], incertezza nei negozi giuridici privatistici sottesi all’attuazione del piano od altre rigidità potrebbero rivelarsi premessa di posizionamenti non convergenti dei privati [nota 37]. Modelli perequativi mal strutturati – proprio come era accaduto a Buccinasco – potrebbero, in altri termini, condurre alla condizione inefficiente tipica delle situazioni in cui su un bene convergono le decisioni di più titolari di diritti di sfruttamento (property rights). Si verificherebbe in tal caso una «fossilizzazione che non corrisponde affatto alla razionalità economica e che ha l’unico effetto di favorire solamente il generarsi di atteggiamenti anticooperativi in capo ai singoli» [nota 38] e la conseguenza ultima di tale ‘inceppamento’ sarebbe rappresentata nella maggior parte dei casi non solo da una frustrazione delle aspettative proprietarie (al punto da far cadere l’intero piano: Buccinasco), ma anche dal definitivo fallimento dell’idea (o della mera suggestione) di edificazione della ‘città pubblica’ grazie ad apporti privati.
Lo spazio della compensazione
La possibilità di introdurre nel piano la perequazione rimane strutturalmente condizionata al ricorrere di precise condizioni spaziali, non sempre verificabili. Per quanto, sulla scia delle possibilità aperte dalle leggi regionali si possa parlare anche di ‘comparti discontinui’ connotati da receiving areas non attigue a quelle che producono i diritti edificatori (sending areas) e sia stata introdotta la perequazione estesa, l’applicazione di questi modelli non è sempre possibile, specie nei tessuti della città consolidata. Nei piani, anche in quelli di più moderna concezione, si continua a prevedere in molti casi (anche in abbinamento con la perequazione parziale) il ricorso al vincolo preespropriativo ed, entro il termine di cinque anni, il ricorso all’espropriazione. Anche in relazione a queste fattispecie la legislazione regionale è comunque intervenuta segnando – come si è visto – una netta ed autentica discontinuità rispetto agli schemi tralatizi.
L’idea di fondo è nel senso di evitare che la vicenda ablatoria si risolva per il privato unicamente in un impoverimento, tanto da indurre il destinatario ad opporsi strenuamente (anche in via giurisdizionale) alle iniziative pubbliche che incidono così negativamente sulla sua sfera patrimoniale. Per perseguire questo obiettivo, a cui si lega direttamente l’effettività dei processi di formazione della città pubblica, è stato introdotto – come detto – l’istituto della compensazione infrastrutturativa [nota 39]. Anche in questi casi la funzione precipua dell’amministrazione non è quella di esercitare l’autorità, quanto piuttosto quella di sollecitare la decisione razionale del privato verso la cessione bonaria, in una logica dietro la quale si riaffaccia quella microeconomia urbanistica entro cui – proprio come nella perequazione – rivestono un ruolo fondamentale approcci neocomportamentali e modelli di formazione delle preferenze individuali [nota 40].
Al proprietario del terreno gravato da un vincolo è assicurata – per effetto di alcune norme regionali (Emilia Romagna [nota 41], Toscana [nota 42], Puglia [nota 43], Umbria [nota 44], Veneto [nota 45], Lombardia [nota 46], Friuli Venezia Giulia [nota 47], Provincia di Trento [nota 48]) – una utilità costituita da altre aree edificabili o da crediti compensativi trasferibili (in Veneto altrimenti definiti ‘crediti edilizi’ [nota 49]). Questa tendenza [nota 50], del resto, ha le sue radici dirette nella sollecitazione formulata dalla Corte costituzionale nella fondamentale sentenza 179/1999 [nota 51] e, volendo andare ancora più indietro, nell’art. 30 della L. 28 febbraio 1985.
Ancora una volta sono le ragioni dell’efficienza, più che un ripensamento valoriale del rapporto proprietà-potere amministrativo, ad imporre soluzioni compensative alternative all’esproprio.
Guardando alla compensazione, va sottolineata l’innovazione rappresentata dalla possibilità di corrispondere l’indennizzo mediante una atipica datio in solutum [nota 52] ad effetti non reali (che non si sostanzia cioè nell’attribuzione di un bene, bensì di un ‘credito compensativo’). L’effettività della funzione infrastrutturativa si ricollega direttamente alla percezione che il proprietario si forma circa la concretezza delle possibilità di futuro ‘atterraggio’ di tale credito compensativo. Il soddisfacimento della pretesa indennitaria – come si è detto – viene infatti differito al momento (incerto) in cui l’attributario del credito dispiegherà personalmente tale capacità volumetrica su un fondo-accipiente o, più frequentemente, un altro privato, acquisendo a titolo oneroso il credito compensativo (tramite ‘girata’ del correlativo titolo), garantirà al proprietario ablato il controvalore del fondo. Quest’ultimo soggetto è quindi posto di fronte all’alternativa tra preferire la immediata liquidazione dell’indennizzo in denaro (il che rimetterebbe l’amministrazione di fronte alla propria endemica penuria di risorse finanziarie) oppure accettare il credito ed il conseguente differimento della percezione del controvalore riferito al fondo che egli cede anticipatamente. L’offerta di crediti compensativi va quindi necessariamente accompagnata da meccanismi di atterraggio preferenziale e prioritario dei suddetti crediti rispetto ai diritti edificatori. In altre parole, sarebbe fortemente penalizzante che si lasciasse residuare una sorta di concorrenza tra le due tipologie di titoli volumetrici scambiabili, facendoli convergere in un unico mercato: poiché i diritti edificatori vengono assegnati al momento dell’entrata in vigore del piano, mentre i crediti compensativi si manifestano in una fase necessariamente successiva (in seguito alla cessione dell’area al comune: infra), vi è il rischio che in tale momento le possibilità di atterraggio si siano ormai fortemente ridotte. Occorre quindi prevedere una sorta di ‘riserva’ di atterraggio: i permessi di costruire rilasciabili sui fondi-accipenti dovranno presupporre l’allegazione di una certa aliquota volumetrica prodotta da crediti compensativi (e non solo da diritti edificatori): si induce così una domanda di titoli volumetrici orientata preferenzialmente ai crediti compensativi, dal cui effettivo atterraggio dipende la formazione di segmenti strategici della città pubblica. E’ inoltre possibile che i Registri dei diritti e crediti edificatori prevedano la possibilità di una ‘iscrizione anticipata’: il credito – pur venendo assegnato solo in seguito alla cessione del terreno all’amministrazione – potrebbe essere iscritto in una sezione speciale del Registro sin dalla fase di apposizione del vincolo. In tal modo, i proprietari dei fondi-accipenti (e dei promotori immobiliari) avrebbero la possibilità, sin dall’entrata in vigore del piano, di sollecitare la circolazione del credito: la pressione della domanda fungerebbe da volano dell’intero sistema.
L’espropriazione come emptio ab invito
Tornando alla disciplina sostanziale dell’espropriazione, anche se dopo l’intervento della Corte costituzionale e del legislatore nazionale la forbice si è molto ridotta, tra la soluzione espropriativa e quella compensativa rimane una differenza quantitativa: la compensazione comporta l’attribuzione al proprietario di aree o crediti di valore pari a quello del fondo espropriato. Alcune regioni (Puglia [nota 53] e Toscana [nota 54]) avevano originariamente previsto una attribuzione compensativa «in luogo dell’indennità spettante per l’espropriazione» (indennità che, anche dopo la sentenza Corte cost. 348/2007, si mantiene in alcune fattispecie per un 25% inferiore al valore venale del bene espropriato: cfr. art. 2, comma 89, L. 24 dicembre 2007, n. 244), mentre altre regioni (Lombardia, Veneto), già prima dei ‘sommovimenti’ del 2007, avevano fatto direttamente riferimento al valore venale quale unico possibile controvalore.
L’introduzione della compensazione, già prima degli arresti della Corte costituzionale, aveva messo a fuoco i tratti di un diritto di proprietà insuscettibile di compressioni anche di fronte al potere espropriativo [nota 55]. Nel complesso, si è in presenza di un ripensamento radicale dell’espropriazione, che riporta alle origini di questo istituto. Secondo l’art. 39 della L. 25 giugno 1865, n. 2359, l’indennità dovuta consisteva «nel giusto prezzo che, a giudizio dei periti, avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compra e vendita»: questa posizione era coerente con le indicazioni derivanti dall’art. 29 dello Statuto Albertino e con l’art. 438 del codice civile del 1865 ed aveva indotto la dottrina dell’epoca [nota 56] a ricostruire l’istituto espropriativo alla stregua di un «fenomeno giuridico di conversione … non di sottrazione di diritti», con la conseguenza che «l’indennità esplicitamente contemplata dalla presente disposizione è il risarcimento obbiettivo consistente nel giusto prezzo dell’immobile espropriato». La pubblica utilità [nota 57] fungeva unicamente da necessaria giustificazione causale entro una vicenda di matrice propriamente contrattuale. Se il potere amministrativo teneva luogo del consenso del proprietario, restava fermo l’obbligo (una vera e propria obbligazione) dell’amministrazione di corrispondere una somma pari al prezzo di mercato [nota 58]. Tuttavia già con la legge 15 gennaio 1885, n. 2892, si affacciò il diverso principio secondo cui l’indennità di esproprio poteva essere sganciata dal giusto prezzo di mercato. L’indennità poteva dunque essere quantificata secondo un canone normativo, derivante dalla media del valore venale e dei fitti coacervati nell’ultimo decennio [nota 59]. Questa modalità di determinazione dell’indennità di esproprio, introdotta per facilitare ‘il risanamento della città di Napoli’ (il cui centro densamente abitato necessitava di interventi di ‘sventramento’, atti a porre rimedio all’insalubrità che aveva favorito la drammatica epidemia colerica del 1884), verrà ripresa nella importante legge 7 luglio 1907, n. 429, sulle espropriazioni per opere ferroviarie e nelle successive leggi di approvazione dei piani urbanistici delle principali città [nota 60]. Di lì, attraverso vicende che qui non è il caso di riassumere, questo principio giungerà di fatto sino alla stagione del presente. Il D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, nella sostanza, si era infatti mantenuto aderente a questa impostazione di fondo e solo l’impatto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha determinato lo scardinamento di questo paradigma.
La compensazione esprime – anche semanticamente – l’immagine di una conversione del diritto di proprietà (corrispondente ad una mera emptio ab invito) in una diversa utilità di matrice urbanistica, la cui attribuzione preserva tuttavia – dal punto di vista quantitativo – l’integrità patrimoniale del proprietario. L’introduzione della compensazione quale metodo destinato a prendere il posto dell’espropriazione si configura quindi come un definitivo superamento dell’antica tradizione giuridica italiana e pare far recedere sullo sfondo i contenuti sociali che secondo la Costituzione temperano la pienezza della situazione proprietaria. Nella frizione tra questi due valori nella legislazione regionale la consistenza patrimoniale del diritto proprietario viene sostanzialmente assunta in guisa di un valore intangibile, rispetto al quale non sono ammessi bilanciamenti.
Problemi applicativi
La compensazione solleva dei problemi sul piano applicativo. Le discipline regionali e pressochè tutti i piani omettono ogni indicazione circa le forme e la natura giuridica che dovrà assumere l’atto di offerta al privato (non è detto, ed esempio, in quale fase del procedimento espropriativo tale atto dovrà intervenire, con quali garanzie per il privato, con quali conseguenze in caso di legittimo rifiuto da parte di quest’ultimo nell’eventualità di proposta incongrua). Vi è poi una serie di questioni che si legano alla mancata generalizzazione di questo strumento. In difetto di una rigorosa gerarchizzazione delle priorità infrastrutturative, sulla base di quali criteri si selezioneranno i casi meritevoli di compensazione? Il rischio è che si creino disparità tra due categorie di proprietari: i ‘cessionari-compensati’ e gli ‘espropriati-indennizzati’. L’aporia sta a monte: trattandosi di decisione produttiva di effetti sul versante dell’uguaglianza tra i proprietari, pare strutturalmente incongrua l’attribuzione di un potere discrezionale all’amministrazione. Ed ancora, quali responsabilità assumerà il funzionario comunale che acceda ad una soluzione compensativa, comunque più onerosa per la collettività (in termini di consumo di suoli) rispetto ad una ordinaria procedura espropriativa finanziata con le risorse fiscali? Se la compensazione costituisce espressione di una decisione dai margini così ampiamente discrezionali (al limite della potestatività), appare inoltre davvero arduo configurare un adeguato modello di tutela: come potrà il proprietario ‘costringere’ l’amministrazione ad accedere ad una soluzione compensativa? Si ripropone dunque il tema della ricostruzione di un adeguato sistema di garanzie a fronte della nuove forme che assume l’attività di governo del territorio.
La compensazione in ambito paesaggistico
Mediante la compensazione si prefigura uno schema ‘forte’ della proprietà, ma l’urbanistica che persegua una maggior effettività del piano non può continuare a recepire alla stregua di un a priori intangibile le tracce più ingombranti di una produzione edilizia dozzinale sedimentatasi anche nel tempo recente e tutte le situazioni che ingenerano un degrado paesaggistico [nota 61]. Nel punto di convergenza tra il governo del territorio e l’espressione più avanzata della disciplina paesaggistica, viene in gioco una diversa forma di compensazione (spesso applicata – come detto – in combinazione con forme di incentivazione) [nota 62]. Anche l’obiettivo della rimozione dei manufatti incongrui si persegue stimolando l’iniziativa dei privati a muoversi nella direzione indicata dal piano, creando cioè le condizioni affinché i detrattori percettivi vengano eliminati. Alcune regioni (Calabria, Veneto, Umbria) prevedono espressamente che il proprietario possa essere gravato da obbligazioni di facere (in alcuni casi si tratta di sollecitazioni, in altri casi vere e proprie imposizioni, che appartengono alla categoria degli ordini), la cui legittimità si correla direttamente all’attribuzione di ‘crediti compensativi’ idonei a ristorare pienamente i proprietari dagli oneri esorbitanti di riqualificazione urbana [nota 63]. Sovente la previsione di ‘premi volumetrici’ (ossia di aumenti della cubatura del fabbricato riqualificato, secondo il modello inaugurato dal ‘piano casa’ [nota 64]) è considerata sufficiente a garantire che le indicazioni del piano assumano concretezza. Ma il nuovo diritto urbanistico regionale non mostra unicamente questo volto ‘mite’. Talune leggi regionali contemplano – quale extrema ratio – l’esproprio. L’espropriazione-compensazione, fallito ogni altro strumento di incentivazione, può dunque costituire lo schema di cui si profila l’impiego per l’eliminazione delle «costruzioni e degli esiti di interventi … che per impatto visivo, per dimensioni planivolumetriche o per caratteristiche tipologiche e funzionali, alterano in modo permanente l’identità storica, culturale o paesaggistica dei luoghi» [nota 65] o ancora, – come prevede una legge lombarda – per favorire il recupero degli opifici dismessi [nota 66]. Ciò in un quadro in cui fra le funzioni sociali a cui è orientata la proprietà assume uno spazio autonomo l’interesse alla riqualificazione formale del paesaggio urbano mediante l’eliminazione di marcatori territoriali negativi che in molti centri compromettono pesantemente la qualità del paesaggio urbano. In tal modo, grazie a questa forma di compensazione, il catalogo degli strumenti per incidere in termini reali sull’assetto materiale della città esistente risulta decisamente più completo.
La compensazione costituisce anche una possibile risposta al problema della imposizione ai proprietari di oneri esorbitanti sul piano infrastrutturativo: in alcuni piani si impongono cessioni od oneri aggiuntivi in carenza di un preciso fondamento legislativo: secondo uno schema di cui resta dubbia la tenuta, si tende ad affermare che la adeguata compensazione dei proprietari diverrebbe fattore determinate per rendere legittime queste decisioni di piano. Questo schema va tuttavia criticato: l’esercizio della funzione ablatoria e la possibilità di imporre obblighi (non oneri) di facere deve comunque restare ancorato ad una base legale, quand’anche l’amministrazione sia in grado di tenere il privato esente da perdite patrimoniali. In tal senso la compensazione costituisce una alternativa all’esproprio ma non al necessario fondamento legale del potere di espropriazione o di conformazione-attiva della proprietà.
Diritti edificatori e crediti compensativi
La scarsa consapevolezza delle differenze tra la perequazione e la compensazione fa sì che uno dei profili su cui i piani mantengono una notevole incertezza terminologica e concettuale attiene alla dicotomia tra diritti edificatori e crediti compensativi. Sul piano teorico si profila invece una netta distinzione tra i titoli volumetrici scambiabili che si assegnano ai proprietari coinvolti nella perequazione (diffusa) e nella compensazione (infrastrutturale ed ambientale-paesaggistica). E’ opportuno rimarcare tale distinzione – come si è fatto sin ad ora – anche sul piano semantico. Questi titoli volumetrici [nota 67] scambiabili a titolo oneroso, indipendentemente dalla circolazione del fondo (scorporabili cioè dal fondo), consentono al titolare (od al cessionario) di beneficiare di una quota dei risultati economici conseguibili per effetto della trasformazione di un fondo-accipiente. Le due tipologie di titoli volumetrici profilate differiscono in primo luogo in ragione della finalità a cui assolvono (diversità teleologico-causale).
Il diritto edificatorio costituisce lo strumento per allocare dotazioni volumetriche anche su fondi materialmente non trasformabili, con lo scopo di consentire ai rispettivi proprietari di concorrere comunque alla distribuzione dei benefici economici indotti dal piano; secondo il tipico schema delle previsioni conformative, il diritto edificatorio viene ad accedere al fondo, anche se tale potenzialità, prodotta dal fondo, non sarà dispiegabile sul fondo. Dalla circolazione del titolo espressivo di un carattere urbanistico del fondo deriverà un risultato patrimonialmente vantaggioso per il proprietario del fondo-sorgente (e del titolo che ‘incorpora’ tale carattere). Una successiva redistribuzione privata consentirà di ‘perequare’ le differenze derivanti dal diverso statuto edificatorio dei suoli (ed, in caso sia prevista la cessione del fondo-sorgente all’amministrazione, consentirà a quest’ultima di risparmiare il costo degli indennizzi).
Il credito compensativo assolve invece ad una funzione tipicamente indennitario-compensativa, a ristoro dei ‘pesi’ imposti dal piano ai proprietari di specifici fondi. Il credito compensativo accresce quindi, in funzione di riequilibrio, il patrimonio del proprietario di tali fondi, garantendo a tale soggetto, in seguito alla circolazione del credito, la possibilità di ottenere un risultato economico che ne ripristini la originaria consistenza patrimoniale. Il sintagma ‘credito compensativo’ esprime quindi con pregnanza i tratti di un sequenza entro la quale il proprietario che adempie ad una obbligazione urbanistica ottiene il ristoro non mediante una contestuale controprestazione da parte dell’amministrazione (come accadrebbe in caso di immediata liquidazione di una indennità in numerario o come accade quando al privato viene assegnata in permuta un’altra area), bensì tramite l’assegnazione di un titolo che garantisce a tale soggetto un soddisfacimento differito, conseguente ad un’altra vicenda giuridica di circolazione del suddetto titolo. Anche in questo caso è una redistribuzione privata a garantire il controvalore dell’obbligazione urbanistica adempiuta e l’amministrazione risparmia il costo dell’indennizzo.
Questi titoli differiscono anche in ragione del rispettivo regime giuridico.
I diritti edificatori sono assegnati direttamente dal piano, alla stregua di un carattere giuridico-urbanistico del fondo. Sono scambiabili dal momento della approvazione del piano e ne costituiscono un ‘prodotto’ diretto.
I crediti compensativi sono (sovente) quantificati dal piano (in stretta proporzione alle prestazioni imposte al proprietario) ma assegnati al soggetto proprietario del fondo vincolato o gravato da obblighi di facere solo ad esito della effettiva cessione del fondo o dell’esatto adempimento dell’obbligazione di riqualificazione paesaggistico-ambientale. Trattandosi di una attribuzione ‘personale’ (e non strettamente reale) si pone quindi un problema di trascrivibilità. Sono scambiabili solo dopo l’assegnazione, in seguito ad una particolare vicenda attuativa del piano urbanistico generale.
Da ultimo, le due diverse tipologie di titoli volumetrici reagiscono in maniera diversa al riesercizio del potere pianificatorio da parte dell’amministrazione.
I diritti edificatori rimangono immanentemente sottoposti al potere di revisione del piano da parte dell’amministrazione (salvo che il comune – alla stregua di un autolimite – non dichiari di voler tenere ferma tale attribuzione per un certo numero di anni, magari già preannunciando il dissolvimento progressivo dei diritti decorso tale periodo di stabilità garantita). Una diversa regola dovrebbe invece valere per i crediti compensativi, che costituiscono il risultato di una prestazione che il privato ha già assolto (cedendo la propria area o riqualificando un proprio manufatto). Al termine di questa disamina, non si può non sottolineare che le rilevanti questioni che restano aperte, il cui approfondimento (si pensi alla estensibilità di schemi propri dei titoli di credito) per alcuni versi travalica il diritto amministrativo, rischiano di frenare la circolazione di questi titoli, con effetti penalizzanti per la realizzazione delle dotazioni territoriali. Ne risulterebbe penalizzata proprio la formazione della parte pubblica della città e dunque la costruzione della coesione-sociale – valore essenziale per tutti i cittadini e non solo i proprietari immobiliari – a cui è orientata la funzione più alta dell’urbanistica e dei suoi più innovativi strumenti.
L’incentivazione
La gamma degli strumenti di microeconomia urbanistica si completa con le figure di incentivazione urbanistica [nota 68] del pari introdotte da alcune leggi nazionali (art. 12, D.lgs. 11 marzo 2011, n. 28 [nota 69] “Attuazione della direttiva 2009/28/Ce sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/Ce e 2003/30/Ce”) e regionali (ad es., L.r. Lombardia 12/2005 cit.) in applicazione di quella che viene spesso definita come ‘premialità urbanistica’. Anche in questo caso, il legislatore ha voluto attribuire all’ente locale un ruolo promozionale, che non si persegue mediante l’ordinaria tecnica di regolazione comando-controllo, bensì facendo ricorso a strumenti tesi a stimolare l’iniziativa autonoma dei privati. L’obiettivo è quello di promuovere iniziative spontanee ‘incentivate’ dai proprietari sul versante dell’efficientamento energetico e della riqualificazione paesaggistica.
Nei casi in cui da un intervento privato possano derivare «benefici pubblici, aggiuntivi rispetto a quelli dovuti e coerenti con gli obiettivi fissati», il documento di piano (non il piano delle regole) può infatti prevedere «una disciplina di incentivazione». La misura di incentivazione specificamente prevista può consistere in un innalzamento sino al quindici per cento della volumetria altrimenti ammessa (solitamente pari a quella esistente) rispetto al singolo intervento [nota 70].
Molto opportunamente, il legislatore ha previsto un limite all’incentivo volumetrico ed è stata altresì prevista una possibilità di graduazione nella concessione del beneficio (sotto forma di percentuale progressiva di incremento volumetrico), in proporzione alla rilevanza dei vantaggi collettivi prodotti dall’iniziativa privata. In questo modo l’amministrazione ha la possibilità di identificare una pluralità di obiettivi e di fissare delle priorità assolute (first best), senza perdere di vista l’incentivazione anche di quelle relative (second best). E’ evidente il rischio che, in mancanza di rigorosi criteri, questa misura possa subire un processo di banalizzazione-generalizzazione [nota 71].
Va detto che l’esperienza di questi anni insegna che si dovrebbero prevedere forme procedimentali paraconcorsuali di assegnazione del beneficio volumetrico che valgano a mettere ‘in competizione’ le diverse iniziative: sarebbe infatti opportuno che il carico volumetrico complessivo del piano non subisse dilatazioni eccessive, mentre – per contro – l’attitudine incentivante della misura prevista dalla norma risulterebbe accentuata dal confronto tra più proposte. Si potrebbe pensare, ad esempio, a dei bandi biennali onde raccogliere un certo numero di progetti e verificare sulla base di specifici criteri qualitativi in che modo distribuire in maniera realmente efficiente l’aliquota di incremento volumetrico che l’amministrazione è disposta a mettere in gioco (e che risulta sostenibile con le grandezze complessive del piano). Seguendo questo schema, sarebbe inoltre l’amministrazione ad orientare la progettualità privata verso il proprio first best. Da ultimo, l’introduzione di una procedura comparativa toglierebbe spazio alla percezione negativa che potrebbe ingenerare una eccessiva discrezionalità dell’amministrazione nel concedere (e nel negare) il surplus volumetrico (con connesso il rischio di cattura del regolatore). Sul piano della prassi notarile, va poi segnalato che molto spesso l’attribuzione del beneficio (in chiave compensativo od incentivale) impone la sottoscrizione di una convenzione che accede al permesso di costruire ‘maggiorato’, nella quale viene spesso prevista una verifica comunale circa l’effettivo rispetto delle obbligazioni paesaggistico-ambientali quale condizione (in presenza di una irrevocabilità del permesso di costruire) per l’ottenimento dell’agibilità degli edifici realizzati mediante l’impiego della volumetria aggiuntiva.
[nota 1] E. BOSCOLO, «Le perequazioni e le compensazioni», in Riv. giur. urb., 2010, p. 104, a cui rimando espressamente per quanto qui non ripreso.
[nota 2] Si vedano i contributi contenuti in L’urbanistica italiana dopo le sentenze del Tar sul Prg di Roma, a cura di R. Corrado, Roma, 2010.
[nota 3] Approvato ai sensi dell’art. 13 della L.r. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12.
[nota 4] Manca, per fare un esempio, in molte regioni un ‘archivio’ dei piani classificabili come perequativi e questo rende assai difficoltosa anche una attività di confronto tra esperienze (benchmarking).
[nota 5] Sulle quali A. MALTONI, «Fondamento e limiti degli strumenti perequativi alla luce della giurisprudenza amministrativa», relazione al Seminario di Sassari, 1 ottobre 2010, “Perequazione urbanistica e ‘mercato’ dei diritti edificatori”, in corso di pubblicazione, il quale sottolinea che la pianificazione perequativa consente il perseguimento in maniera più piena della funzione sociale della proprietà. Queste sentenze lasciano comunque aperti innumerevoli problemi: dalla sufficienza dei richiami diretti alla Costituzione per legittimare specifici modelli pianificatori in carenza di un richiamo espresso che funga da copertura della tecnica perequativa, alla rilevanza degli spazi effettivamente riservabili alla consensualità ed alla valenza di copertura legale degli artt. 1, comma I-bis, ed 11 della L. 7 agosto 1990, n. 241, sino all’incidenza del potere regolamentare attribuito ai comuni ex art. 118 Cost.
[nota 6] La Corte costituzionale, con riferimento alla disciplina dei contratti pubblici ha avuto modo di sancire l’illegittimità costituzionale di norme statali di dettaglio che, in quel caso sotto l’usbergo della competenza statale esclusiva in materia di concorrenza (nella perequazione ciò potrebbe invece verificarsi in nome della unitarietà dell’ ‘ordinamento civile’), andavano ad invadere la sfera della legislazione regionale entro la quale era già stata espressa una coerente disciplina organizzativa: «Deve, pertanto, ritenersi non conforme al sistema di riparto delle competenze tra lo Stato e le regioni la normativa contenuta nei commi in esame, la quale vale certamente nel suo insieme per l’attività contrattuale posta in essere in ambito statale, mentre per le regioni deve necessariamente avere carattere recessivo nei confronti di una diversa (ove esistente) disciplina specifica di matrice regionale, secondo quanto disposto dall’art. 117, comma 5, Cost. e dall’art. 1, comma 6, della legge di delega n. 62 del 2005. Alla luce delle considerazioni che precedono, le disposizioni di cui ai commi 2, 3, 8 e 9 dell’art. 84, devono essere dichiarate costituzionalmente illegittime nella parte in cui, per i contratti inerenti a settori di competenza regionale, non prevedono che esse abbiano carattere suppletivo e cedevole rispetto ad una divergente normativa regionale che abbia già diversamente disposto o che disponga per l’avvenire»: Corte cost. 23 novembre 2007, n. 401, in Riv. giur. ed., 2007, I, p. 101, con nota di R. De Nictolis.
[nota 7] In Urb. app., 2009, , con nota di A. Giannelli.
[nota 8] In quel caso il piano non garantiva certezza di ‘atterraggio’ ai diritti edificatori (invero crediti compensativi) assegnati ai proprietari delle aree destinate alla cessione a vantaggio del comune.
[nota 9] Emilia Romagna, sez. I, 14 gennaio 1999, n. 22, in Riv. giur. urb., 2000, 5.
[nota 10] Tar Campania, Salerno, sez. I, 20 febbraio 2002, n. 845, in Riv. giur. ed., 2003, I, p. 812. Si vedano anche Tar Campania, Salerno, sez. I, 5 luglio 2002, n. 670, e Tar Campania, Salerno, I sez., 7 agosto 2003, n. 846.
[nota 11] A. SANDULLI, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998; D.U. GALLETTA, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998; da ultimo, F. SPAGNUOLO, «Il principio di proporzionalità tra vecchi e nuovi schemi interpretativi», in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008, p. 1002; S. VILLAMENA, Contributo in tema di proporzionalità amministrativa. Ordinamento comunitario, italiano, inglese, Milano, 2008; E. BUOSO, Proporzionalità, efficienza e consensualità nell’azione amministrativa, I. Una comparazione tra ordinamenti, Padova, 2009.
[nota 12] Cons. Stato, sez. IV, 21 agosto 2006, n. 4833.
[nota 13] Le previsioni perequative sono invece ordinariamente sottratte – in quanto aventi natura meramente conformativa – alla vicenda decadenziale: Tar Liguria, sez. I, 21 novembre 2005, n. 1492.
[nota 14] In questa sede occorre inoltre rimarcare che appaiono gravemente illegittimi i piani perequativi (secondo il modello a volumetria aggiuntiva, invero assai diffusi: Monza) nei quali viene attribuita al comune una quota di edificabilità disgiuntamente dalla titolarità del terreno atto a produrla.
[nota 15] Tar Lombardia, sez. II, 17 settembre 2009, n. 4671, cit.
[nota 16] A. BARTOLINI, «I diritti edificatori in funzione premiale (le c.d. premialità edilizie)», in Riv. giur. urb., 2008, p. 429.
[nota 17] Rinvio ancora a «Le perequazioni e le compensazioni», passim.
[nota 18] La perequazione territoriale muove dal valore dell’equità territoriale e mira, tra l’altro, a favorire la localizzazione di infrastrutture generatrice di esternalità diffusive (S. VILLANI, «Un’analisi del problema della ‘localizzazione indesiderata’ attraverso la teoria dei giochi e l’economia cognitiva», in Econ. font. energ.. amb., 2008, p. 69). Si veda in tal senso la prima esperienza su larga scala promossa dalla Provincia di Lodi (sulle precedenti esperienze condotte in alcuni contesti vallivi dell’Emilia Romagna si era partitamente soffermato A. BRUZZO – E. K. ZIMMER, La perequazione territoriale, Bologna, 2006).
[nota 19] P. MARZARO, «Credito edilizio, compensazione e potere di pianificazione. Il caso della legge veneta», in questa Riv. giur. urb., 2005, p. 645.
[nota 20] A. GAMBARO, «Compensazione urbanistica e mercato dei diritti edificatori», in Riv. giur. ed., 2010, II, p. 3.
[nota 21] Per una impostazione non dissimile, P. MADDALENA, «Il bosco e l’ambiente», in Riv. giur. amb., 2009, p. 635.
[nota 22] P. CERBO, «I ‘nuovi’ principi del codice dell’ambiente», in Urb. app., 2008, p. 533; U. SALANITRO, «I principi generali nel Codice dell’ambiente», in Giorn. dir. amm., 2009, p. 103.
[nota 23] G. LUCHENA, Ambiente, diritti delle generazioni future ed etica delle responsabilità, in La tutela multilivello dell’ambiente a cura di F. Gabriele – A.M. Nico, Bari, 2005, p. 191; R. BIFULCO, Diritto e generazioni future, Milano, 2008; J. C. TREMEL, A Theory of Intergenerational Justice, London, 2009; F. FRACCHIA, Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile dell’altro tra protezione dell’ambiente e tutela della specie umana, Napoli, 2010.
[nota 24] A. MORRONE, Diritti collettivi, proprietà collettiva e Costituzione, in Archivio Scialoja-Bolla, 1, 2008, Milano, p. 30.
[nota 25] Il richiamo va al fondamentale contributo di M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattivo, comune, Torino, 2006.
[nota 26] A. LIPPI, La valutazione delle politiche pubbliche, Bologna, 2007, in part., 119.
[nota 27] S. STANGHELLINI, Obiettivi e modelli dei piani urbanistici perequativi in Italia, in Strumenti per il governo del territorio. Perequazione e borsa dei diritti edificatori a cura di M. De Carli, Milano, 2007, in part., p. 39: «Gli elaborati di piano non riportano mai le analisi condotte per individuare e pesare tali caratteristiche. La classificazione dei suoli che viene resa nota al termine del processo decisionale appare quindi essere il frutto di valutazioni di sintesi».
[nota 28] Ancora una volta la direttiva 2001/42/Ce indica la necessità di una diversa strutturazione del policy cicle, entro cui il monitoraggio occupa un ruolo decisivo.
[nota 29] P. URBANI, «La costruzione della città pubblica: modelli perequativi, diritto di proprietà e principio di legalità», in www.giustamm.it.
[nota 30] Strumenti per il governo del territorio. Perequazione e borsa dei diritti edificatori, a cura di M. De Carli, cit., passim.
[nota 31] Per una sagace messa a nudo della funzioni e metafore su cui si costruisce il diritto, si veda F. GALGANO, Le insidie del linguaggio giuridico. Saggio sulle metafore nel diritto, Bologna, 2010.
[nota 32] M. CIAN, voce Dematerializzazione, in Enc. dir., Annali, II, tomo II, Milano, 2008, p. 313.
[nota 33] Prima di tale sentenza – decisiva per dare slancio ai modelli di circolazione dei titoli volumetrici – si era ritenuto che non fosse consentita la trascrivibilità dei negozi aventi ad oggetto titoli volumetrici, salvo che questi venissero qualificati come ‘diritti atipici di natura reale’, con tutte le difficoltà – pur non insuperabili – che pone il principio del ‘numero chiuso’ dei diritti reali: G. RIZZI, La circolazione dei crediti edilizi, in Nuovi strumenti di pianificazione urbanistica e del territorio, Milano, 2009.
[nota 34] Al fenomeno dei costi di transazione può essere ascritta ogni forma di ingerenza pubblica sui comportamenti privati: si facciano anche gli esempi di forme di incertezza sul contenuto del titolo negoziabile in relazione alle diverse soluzioni di atterraggio ed alle modalità concrete dell’edificazione: cfr. O.E. WILLIAMSON, I meccanismi del governo. L’economia dei costi di transazione: concetti, strumenti, applicazioni, Milano, 1998, passim.
[nota 35] R. GIBBONS, Teoria dei giochi, Bologna, 1994.
[nota 36] Zone di concentrazione troppo ristrette costringerebbero i soggetti attuatori, per fare un esempio, a privilegiare soluzioni in elevazione (ove reso possibile dal piano). Diversamente, zone di concentrazione incapaci di riceve tutti i diritti edificatori del comparto innescherebbero un meccanismo di domanda di diritti ‘inattivi’: sarebbero cioè ambìti i diritti edificatori detenuti dai proprietari non interessati a ricevere ‘valore’ immobiliare ma a unicamente a ‘monetizzare’: naturalmente tale domanda farebbe crescere i prezzi e favorirebbe condotte predatorie.
[nota 37] Va dunque segnalata l’esigenza che il piano perequativo nel suo dimensionamento tenga conto di una sorta di ineliminabile ‘irrazionalità decisionale’ (spesso derivante da incompletezze informative) di una aliquota di proprietari: senza alterare l’equilibrio tra domanda ed offerta, alcuni piani (si veda al proposta di piano di Sassari) prefigurano quindi una leggera eccedenza dei diritti edificatori (c.d. coefficiente di non attuazione), esponendosi tuttavia a severe censure di legittimità.
[nota 38] M. HELLER, «The Tragedy of the Anticommons», in Harw. Law Rew., 1998, p. 321; M. AMBROSOLI, I diritti reali e l’analisi economica del diritto, in Trattato dei diritti reali a cura di A. Gambaro – R. Morello, vol. I, Proprietà e possesso, Milano, 2008, in part., p. 230. Sul versante della dottrina pubblicistica, si veda invece G. NAPOLITANO – M. ABRESCIA, Analisi economica del diritto pubblico, Bologna, 2009, in part., p. 88.
[nota 39] Da non confondere con la forme di compensazione economico-finanziaria che i piani territoriali regionale e provinciali attribuiscono ai comuni investiti da esternalità prodotte da insediamenti collocati in comuni vicini: cfr. G. CIAGLIA, «Della ‘compensazione urbanistica’ ovvero di come rivoluzionare l’urbanistica senza che nessuno se ne accorga», in Riv. giur. urb., 2005, p. 218.
[nota 40] J.E. STIGLITZ, Economia del settore pubblico, II ed., Milano, 2004.
[nota 41] L.r. Emilia R. 24 marzo 2000, n. 22, art. 30; L.r. Emilia R. 19 dicembre 2002, n. 37, art. 23.
[nota 42] L.r. Toscana 18 febbraio 2005, n. 30, art. 15.
[nota 43] L.r. Puglia, 22 febbraio 2005, n. 3, art. 21.
[nota 44] L.r. Umbria 22 febbraio 2005, n. 11, art. 30.
[nota 45] L.r. Veneto 23 aprile 2004, n. 11, art. 37.
[nota 46] L.r. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, art. 11, comma 3.
[nota 47] L.r. Friuli Venezia Giulia 23 febbraio 2007, n. 23, art. 32.
[nota 48] L.p. Trento, 4 marzo 2008, n. 1, art. 55.
[nota 49] P. MARZARO, «Credito edilizio, compensazione e potere di pianificazione. Il caso della legge veneta», in Riv. giur. urb., 2005, p. 645.
[nota 50] Solo in parte diversa la funzione a cui assolve la previsione introdotta dall’art. 1, commi 21-24, della L. 15 dicembre 2004, n. 308, secondo cui è indennizzabile il pregiudizio subito da un soggetto che a cui sia inibito di dare dispiegamento ad un permesso di costruire a causa del sopravvenire di un vincolo paesaggistico: cfr. M. RENNA, Vincoli alla proprietà e diritto dell’ambiente, in Ambiente, attività amministrativa e codificazione a cura di D. De Carolis – E. Ferrari – A. Police, Milano, 2005, p. 389.
[nota 51] Già in materia di programmi di riabilitazione (Pru) il legislatore, all’art. 27, comma 5, della L. 1 agosto 2002, n. 166, aveva stabilito che l’indennità ai soggetti indisponibili a partecipare alla vicenda attuativa potesse «essere corrisposta anche mediante permute di altre proprietà immobiliari site nel comune».
[nota 52] A. CANDIAN, Prestazione in luogo dell’adempimento, in Dig. disc. priv., XIV, Torino, 1996, p. 260; S. RODOTA’, voce Dazione in pagamento, dir. civ., in Enc. dir., XI, Milano, 1962, in part., p. 738, il quale precisava che la struttura «della dazione in pagamento porta ad escludere che essa possa esser estesa al di là dell’ambito negoziale, costruendosi un’ipotesi di dazione in pagamento necessaria o legale».
[nota 53] L.r. Puglia, 22 febbraio 2005, n. 3, art. 21.
[nota 54] L.r. Toscana, 16 febbraio 2005, n. 30, art. 15.
[nota 55] Su questi temi rimane fondamentale A. GAMBARO, Jus aedificandi e nozione civilistica della proprietà, Milano, 1975. Per una approfondita rassegna in chiave comparativistica, G. MANGIONE, Jus aedificandi e valori costituzionali, Milano, 2004.
[nota 56] G. SABBATINI, Commento alle leggi sulle espropriazioni per pubblica utilità, III ed., Torino, 1913, in part., p. 599-600 per le citazioni che seguono nel testo.
[nota 57] W. GASPARRI, “Il punto logico di partenza”. Modelli contrattuali, modelli autoritativi e identità disciplinare nella dogmatica dell’espropriazione per pubblica utilità, Milano, 2004.
[nota 58] Addirittura veniva escluso – ed era un profilo carico di implicazioni – che l’amministrazione potesse determinare unilateralmente l’ammontare di tale somma: questo compito era affidato ad un collegio di periti che fungevano – si direbbe oggi – da arbitratori.
[nota 59] Con la conseguenza non secondaria che, a quel punto, era la stessa amministrazione a poter calcolare l’ammontare della somma spettante al privato, prescindendo dalla terzietà dei periti.
[nota 60] Si veda la ricostruzione di G. VIGNOCCHI, L’indennità di espropriazione, in Atti del VI Convegno di scienza dell’amministrazione. “Nuovi aspetti e sviluppi della espropriazione per pubblica utilità”, Milano, 1962, in part., p. 148.
[nota 61] D. RONCISVALLE, Ri-generare il paesaggio, Milano, 2007.
[nota 62] E. BOSCOLO, «La nozione giuridica di paesaggio identitario ed il paesaggio ‘a strati’», in La nuova disciplina del paesaggio: commento alla riforma del 2008, in Riv. giur. urb., 2009, p. 57.
[nota 63] Si veda l’art. 45 della Nta del piano di assetto del territorio (Pat) approvato nel dicembre 2007 dal Comune di Verona.
[nota 64] L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 258: “Definizione, negli strumenti urbanistici, di zone da destinare all’edilizia residenziale sociale”. «Fino alla definizione della riforma organica del governo del territorio, in aggiunta alle aree necessarie per le superfici minime di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e alle relative leggi regionali, negli strumenti urbanistici sono definiti ambiti la cui trasformazione è subordinata alla cessione gratuita da parte dei proprietari, singoli o in forma consortile, di aree o immobili da destinare a edilizia residenziale sociale, in rapporto al fabbisogno locale e in relazione all’entità e al valore della trasformazione. In tali ambiti è possibile prevedere, inoltre, l’eventuale fornitura di alloggi a canone calmierato, concordato e sociale»; comma 259: “Possibilità di aumento di volumetria da parte dei comuni per l’edilizia residenziale sociale”. «Ai fini dell’attuazione di interventi finalizzati alla realizzazione di edilizia residenziale sociale, di rinnovo urbanistico ed edilizio, di riqualificazione e miglioramento della qualità ambientale degli insediamenti, il comune può, nell’ambito delle previsioni degli strumenti urbanistici, consentire un aumento di volumetria premiale nei limiti di incremento massimi della capacità edificatoria prevista per gli ambiti di cui al comma 258».
[nota 65] L.r. Emilia Romagna, 15 luglio 2002, n. 16, art. 10.
[nota 66] L.r. Lombardia 2 febbraio 2007, n. 1, art. 7. Sul recupero dei siti produttivi dismessi, si veda Recupero urbanistico e ambientale delle aree industriali dimesse a cura di P. Stella Richter – R. Ferrara – C. E. Gallo – C. Videtta, Napoli, 2008. Merita una citazione anche la L.r. Puglia 23 giugno 2006, n. 17, sulla base della quale molti comuni costieri hanno avviato importanti programmi di delocalizzazione dei manufatti turistici posti sul litorale. Un cenno a parte va poi riservato al piano paesaggistico della Sardegna, nel quale sono previsti specifici interventi per la delocalizzazione (incentivata) di strutture turistiche nell’entroterra: su questi temi rinvio ad E. BOSCOLO, «Paesaggio e tecniche di regolazione: i contenuti del piano paesaggistico», in Riv. giur. urb., 2008, p. 130.
[nota 67] Il sintagma ‘titolo volumetrico’ identifica una categoria generale, nella quale sono compresi sia i diritti edificatori, sia i crediti compensativi. Le differenze tra i due istituti sono tuttavia tali da rendere necessario concentrarsi sui profili distintivi, mentre sarebbe scarsamente utile – come si è per lo più fatto sino ad ora – limitarsi a parlare di titoli volumetrici tout court nei piani di nuova generazione, facendo ricorso ad un iperonimo.
[nota 68] A. BARTOLINI, «I diritti edificatori in funzione premiale…», cit.
[nota 69] Art. 12 (Misure di semplificazione) «I progetti di edifici di nuova costruzione e di ristrutturazioni rilevanti su edifici esistenti che assicurino una copertura dei consumi di calore, di elettricità e per il raffrescamento in misura superiore di almeno il 30 per cento rispetto ai valori minimi obbligatori di cui all’allegato 3, beneficiano, in sede di rilascio del titolo edilizio, di un bonus volumetrico del 5 per cento, fermo restando il rispetto delle norme in materia di distanze minime tra edifici e distanze minime di protezione del nastro stradale, nei casi previsti e disciplinati dagli strumenti urbanistici comunali, e fatte salve le aree individuate come zona A dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444. I progetti medesimi non rientrano fra quelli sottoposti al parere consultivo della commissione edilizia eventualmente istituita dai Comuni ai sensi dell’articolo 4, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380».
[nota 70] La Lombardia, a differenza dell’Umbria (L.r. 22 febbraio 2005, n. 11, art. 4), ha previsto un limite legato unicamente alla volumetria del singolo intervento e non al dimensionamento del piano. In questa seconda ipotesi, si può evitare il menzionato rischio della banalizzazione-generalizzazione (la volumetria premiale rimane una risorsa scarsa e finita), ma occorre fronteggiare il rischio di accaparramento: il primo intervento in ordine temporale, ovvero un intervento di notevole consistenza, potrebbe infatti ‘drenare’ tutto lo stock disponibile. Ecco quindi un altro caso in cui sarebbe fondamentale prevedere un meccanismo d’asta (come previsto dal ‘Pdl 153’).
[nota 71] In difetto di una gestione particolarmente selettiva, l’incentivo verrebbe a perdere la sua funzione di stimolo. Le incentivazioni costituiscono un volano verso l’eccellenza e dunque non vanno messe sullo stesso piano delle regole ordinarie. I ‘traguardi’ ai quali corrisponde l’ottenimento del beneficio non possono coincidere con il rispetto dei parametri quanto-qualitativi che regolano ex se la vicenda urbanistica: si deve trattare di forme di intervento apprezzabilmente più ‘esigenti’, capaci di dare origine a risultati tangibilmente più elevati rispetto all’ordinario: solo a questa condizione sarà possibile favorire risultati di infrastrutturazione, piuttosto che scoraggiare la creazione di luoghi sostanzialmente monofunzionali, ‘premiando’ rapporti più equilibrati tra le diverse destinazioni, oppure incoraggiando il recupero della tradizione cromatico-materica lombarda e degli iconemi che esprimono lo statuto e l’identità dei luoghi. Solo a tali condizioni trova giustificazione una misura che, incidendo direttamente sulla grandezze insediabili, ha un costo sul versante della sostenibilità complessiva del piano. Se così non fosse, ogni piano di recupero dovrebbe beneficiare di un premio volumetrico, con ricadute territoriali elevatissime.
Fonte:
https://elibrary.fondazionenotariato.it/articolo.asp?art=34/3404&mn=3
Urbanistica ed attività notarile. Nuovi strumenti di pianificazione del territorio e sicurezza delle contrattazioni
Atti del Convegno tenutosi a Bari l’11 giugno 2011 (N. 3/2011)
L’attività di programmazione del territorio e la conseguente individuazione e messa a fuoco degli obiettivi strategici da perseguire nel tempo è scopo preminente di interesse pubblico: la soddisfazione di primari interessi e bisogni collettivi. I concorrenti e divergenti interessi – sia tra pubblico e privato che tra i diversi proprietari – l’ espansione delle necessità collettive, i sempre minori mezzi finanziari ed economici a disposizione dell’Ente Pubblico hanno reso sempre più critico e difficile l’intervento di quest’ultimo. Di qui, negli ultimi anni, il ricorso sempre più frequente a meccanismi innovativi consistenti essenzialmente nelle tecniche di perequazione, nei suoi vari aspetti e definizioni, volte a perseguire una proficua e funzionale integrazione tra i compiti istituzionali dell’Ente Pubblico e le istanze operative dei privati. Il tutto, naturalmente, secondo regole sicure, di univoca interpretazione che riducano al minimo il sacrificio dei privati nel perseguimento dei preminenti interessi pubblici. Regole che, nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, disciplinino compiutamente gli effetti reali delle transazioni e garantiscano la ordinata circolazione dei diritti edificatori nel complesso contesto economico, fiscale e finanziario.
https://elibrary.fondazionenotariato.it/indice.asp?pub=34&mn=3